È possibile essere titolari di utenze senza esserne a conoscenza?
Da qualche anno a questa parte è molto comune ricevere telefonate da parte di compagnie telefoniche o fornitrici di servizi domestici, come elettricità e gas, con le quali si viene invitati a stipulare un nuovo contratto di fornitura.
Tali telefonate, per quanto possano molto spesso arrecare disturbo, non sono di per sé recriminabili: molto spesso infatti siamo noi stessi che, senza prestare la dovuta attenzione, forniamo i nostri indirizzi e numeri di telefono a gestori di banche dati che poi vendono tali dati alle compagnie di fornitura, le quali altro non fanno che promuovere i propri prodotti.
I contratti stipulati telefonicamente, per altro, sono perfettamente legali ed efficaci: il consenso prestato per via telefonica equivale in tutto e per tutto al consenso prestato mediante la sottoscrizione di un documento scritto, motivo per il quale è necessario essere molto cauti durante tali conversazioni telefoniche.
Le tutele che offre il nostro ordinamento
Altro paio di maniche è però il caso in cui ci si scopra titolari di un contratto non sottoscritto da noi: come è possibile? Che tutele offre il nostro ordinamento?
Quasi sempre la risposta alla prima domanda è molto semplice: siamo stati vittima di un “furto di identità”, e cioè quella situazione in cui un soggetto si è impossessato dei nostri dati e li ha utilizzati senza il nostro consenso per l’attivazione di servizi o forniture, come ad esempio l’attivazione di un nuovo contratto di fornitura elettrica. La peculiarità della situazione è che molto spesso la vittima del furto non si accorge nell’immediato di quanto avvenuto; fortunatamente, però, non è una situazione senza soluzioni.
Ciò che rileva è però comprendere su chi ricadano le obbligazioni e le responsabilità derivanti dal contratto: la vittima è vincolata al nuovo contratto stipulato con tutte le conseguenze e le incombenze che ne conseguono? È tenuta a corrispondere gli eventuali canoni del servizio?
La risposta, ovviamente, è no. Per la legge italiana, infatti, il consenso è un elemento essenziale del contratto e tale consenso deve essere prestato in maniera libera, e cioè senza influenze esterne, e consapevole, e cioè nel pieno delle proprie facoltà. Nel caso in esame, però, ci si trova di fronte ad una completa mancanza del consenso del soggetto che si suppone contraente, e quindi alla mancanza di un elemento in assenza del quale il contratto è nullo a tutti gli effetti. Chi è tenuto dunque al pagamento degli eventuali canoni?
L’onere ricade su chi ha utilizzato illegittimamente i dati altrui per contrarre, il quale è tenuto tanto al pagamento per il servizio previsto dal contratto stipulato quanto al risarcimento del danno nei confronti del soggetto che con l’inganno si è ritrovato contraente inconsapevole.
Oltre al danno patrimoniale che è tenuto a risarcire, però, il “finto contraente” rischia conseguenze ben peggiori di quelle prospettate fino ad ora: tale condotta è infatti rilevante non solo dal punto di vista civile ma anche da quello penale: l’utilizzo dei dati altrui per trarne un vantaggio, così come per arrecare danno ad altri, integra infatti il reato di sostituzione di persona, previsto all’art. 494 del codice penale, per il quale è prevista la pena della detenzione fino ad un anno.
Il caso
Caso emblematico in materia è quello di una donna che vedendosi recapitare un sollecito di pagamento da parte di una compagnia telefonica richiedeva copia della fattura che si riteneva non saldata, venendo così a conoscenza della spiacevole situazione che la vedeva coinvolta: pur non essendone a conoscenza e pur non avendo mai richiesto il servizio risultava intestataria di una linea telefonica domiciliata però presso il suo ex marito. Quest’ultimo, infatti, aveva utilizzato i dati dell’ex moglie per procedere all’attivazione della linea telefonica della propria abitazione, accollandole le relative spese.
Il Tribunale Penale di Bari, con sentenza n. 2334 del 29 aprile 2016, ha riconosciuto la colpevolezza l’uomo per il reato di cui all’art. 494 del codice penale, identificando la condotta rilevante nel comportamento “suscettibile di trarre i terzi in inganno”, condannandolo al pagamento delle spese processuali e a due mesi di reclusione.