Studio Legale Foschini Pagani

Locazione commerciale

LA CONCESSIONE IN GODIMENTO DI UN NEGOZIO: AFFITTO D’AZIENDA O LOCAZIONE COMMERCIALE?

La locazione commerciale e l’affitto d’azienda sono tipologie contrattuali che seppur presentando punti di contatto (ad esempio, sono entrambi contratti di durata e con effetti obbligatori), si distinguono per un elemento importantissimo: la preesistenza dell’organizzazione impressa per l’esercizio di un’attività d’impresa, che deve essere anteriore alla cessione o concessione in godimento. Con la sentenza n. 3888/2020 la Corte di Cassazione ribadisce come tale “organizzazione” sia l’elemento informatore dell’esistenza di un’azienda e, pertanto, che permette di distinguere la locazione commerciale dall’affitto d’azienda.

locazione commerciale
Riferimenti normativi

Nel linguaggio comune i termini “affitto” e “locazione” vengono spesso considerati come sinonimi, tuttavia, da un punto di vista strettamente giuridico, tali parole indicano due contratti differenti soggetti a norme del tutto diverse.

La locazione commerciale è il contratto mediante il quale una parte (il locatore) si obbliga a far godere ad un terzo (il conduttore), per un determinato periodo, un bene immobile adibito allo svolgimento di attività commerciali, artigianali o di interesse turistico, ricevendo in cambio il versamento di un corrispettivo.

La legge n. 392/1978 (cd. “Legge sull’equo canone”) ne detta la disciplina applicabile, anche con norme inderogabili dalle parti.

L’affitto d’azienda è, invece, un contratto mediante il quale un imprenditore (cd. concedente o affittante), titolare del complesso aziendale, concede ad un altro soggetto (l’affittuario), il diritto di godere dello stesso, per un dato tempo, a fronte del pagamento di un canone periodico.

Si tratta, quindi, di un contratto che presenta molti meno vincoli rispetto alla locazione commerciale e, per tale motivo, spesso chi affitta un immobile preferisce utilizzare questa tipologia contrattuale: in particolare tale prassi si è instaurata all’interno dei centri commerciali dove gli spazi vengono affittati come aziende nonostante la quasi totale assenza di beni aziendali spesso costituiti dal locale e dalla sola licenza commerciale.

Il discrimine circa la legittimità di tale utilizzo è stato posto dalla recentissima sentenza n. 3888 del 17 febbraio 2020 della Corte di Cassazione con la quale si sono chiarite quali sono le caratteristiche che deve possedere il contratto di affitto d’azienda per sfuggire all’applicazione delle norme vincolistiche stabilite per la locazione di un immobile ad uso commerciale.

Discrimen e irrilevanza del nomen iuris.

Fatta questa premessa, la vicenda in questione vedeva contrapposte due società: la prima, titolare di un centro commerciale, citava in giudizio la seconda perché il contratto di affitto d’azienda era giunto a scadenza e chiedeva il rilascio dei beni, nonché il risarcimento del danno.

L’affittuaria si opponeva domandando l’accertamento di un rapporto di locazione commerciale, anziché di affitto d’azienda e chiedendo l’applicazione in suo favore di tutte le norme a protezione del conduttore previste dalla legge 392/78.

La vertenza giungeva sino alla Corte di Cassazione.

Orbene, la Suprema Corte è partita dal presupposto secondo il quale l’affitto dell’azienda si ha solo quando sia concesso in godimento un complesso di beni mobili e immobili unitariamente considerato, dotato di potenzialità produttiva, ancorché l’attività produttiva non sia ancora iniziata al momento della conclusione del contratto. Dunque “…caratteristica dell’azienda è che si tratti di un complesso unitario di beni, tenuto insieme dall’organizzazione che di questi ha fatto l’imprenditore in vista dell’esercizio dell’impresa. Nella circolazione dell’azienda non viene meno l’unitarietà del complesso dei beni che la compongono, unitarietà impressa dall’organizzazione, con il sottinteso senso che questa unitarietà deve esistere al momento della concessione in godimento a terzi perché possa parlarsi di affitto d’azienda” (Cass. sent. n. 3888/2020).

E ancora: “…il fatto che la produttività possa essere anche soltanto potenziale, non vuol dire che non debba esserci, ossia che al momento della cessione l’insieme di beni non debba aver l’attitudine a produrre, e che tale produttività debba risultare proprio dalla organizzazione impressa dal cedente, e non già dalla natura o dalla destinazione dei singoli beni” (Cass. sent. n. 3888/2020).

La Corte di Cassazione ha, quindi, ribadito l’irrilevanza del nomen iuris dato dalle parti all’accordo: “E’ di tutta evidenza che, di per sé, se le parti qualificano un contratto come cessione d’azienda, questa loro dichiarazione non costituisce confessione circa l’effettiva natura dell’atto, al punto che il giudice debba ritenersi vincolato a prenderne atto o comunque a trarne prova circa il tipo contrattuale di riferimento” (Cass. sent. n.  3888/2020).

Trova, pertanto, applicazione, il principio di carattere generale secondo cui la sostanza prevale sulla forma di un atto o negozio giuridico, non rilevando la qualificazione datane dalle parti, ma il contenuto dello stesso.

La Corte accogliendo il ricorso della conduttrice rilevava infatti: “…Nella fattispecie, la valutazione che i giudici di merito devono effettuare deve tener conto della regola di diritto sopra esposta, secondo cui la differenza essenziale tra locazione e affitto di azienda (o di ramo di essa) è in primo luogo nella preesistenza di una organizzazione in forma di azienda dei beni oggetto di contratto, mancando la quale non si può dire che sia stato ceduto il godimento di un’azienda o di un suo ramo; in secondo luogo ove si accerti che i beni erano al momento del contratto organizzati per l’esercizio dell’impresa già dal dante causa, occorre verificare se le parti abbiano inteso trasferire o concedere il godimento del complesso organizzato, oppure semplicemente di un bene immobile, rispetto al quale gli altri beni e servizi risultano strumentali al godimento del bene, restando poi libero l’avente causa di organizzare ex novo un’azienda propria. E ciò tenendo conto che un complesso di beni organizzato costituisce azienda se i beni sono tali da poter costituire, attraverso l’organizzazione, di cui si è detto, una azienda vera e propria, ed occorrerà dunque tener conto del fatto che, nella fattispecie, i beni ceduti, insieme al locale erano costituita da un massetto, un registratore ed un gabinetto, ossia da cespiti la cui cessione, di per sè, non integra un trasferimento di ramo aziendale”.

La Corte di Cassazione accogliendo il ricorso della società conduttrice ha, quindi, rinviato la causa avanti la Corte d’appello di Bologna, in diversa composizione, che dovrà decidere il merito tenendo conto dell’inquadramento del rapporto contrattuale intercorso tra le parti sotto l’istituto della locazione commerciale.

Conseguenze

Si dovranno, quindi, applicare le norme vincolistiche previste per la locazione commerciale e non la disciplina contrattuale pattuita tra le parti come affitto di azienda.

Per esempio.

Nella locazione commerciale la durata minima è prevista ex lege e non potrà essere inferiore a sei anni con rinnovo obbligatorio per i sei successivi (art. 27 della legge n. 392/1978): questa norma sostituirà la pattuizione intercorsa tra le parti.

Differente è anche la disciplina relativa alla possibilità di adeguamento del canone, posto che è limitato al 75% dell’incremento dell’indice ISTAT sull’anno precedente: il che potrebbe comportare anche una rideterminazione dei canoni di locazione pagati.

Nella locazione commerciale è previsto l’obbligo del locatore di corrispondere l’indennità di avviamento alla cessazione del contratto nella misura di diciotto mensilità dell’ultimo canone corrisposto (o di trentasei mensilità se viene locato nuovamente nei sei mesi successivi al rilascio con la medesima tipologia merceologica precedente): e, nel caso de quo, è abbastanza probabile prevedere la condanna del locatore al pagamento di tale indennità (evidentemente non prevista nel contratto di affitto di azienda stipulato tra le parti).

Altre norme, probabilmente nel caso de quo non troveranno applicazione, ma si deve ricordare che al conduttore spetterebbe il diritto di prelazione in caso di cessione dell’immobile locato così come il diritto di recesso per gravi motivi (pattuizioni che raramente si trovano nei contratti di affitto di azienda).

Conclusioni

In conclusione, assodato che la caratteristica principale dell’azienda è l’organizzazione del complesso unitario di beni (materiali ed immateriali), in vista dell’esercizio dell’impresa, dalla sentenza analizzata si evince che l’elemento discretivo per giudicare se si tratti di un contratto di affitto d’azienda o di locazione commerciale è la preesistenza dell’impresa, quantomeno nella sua potenzialità di esercizio.

Perciò per l’affitto d’azienda (o di un suo ramo) si richiede che oltre al godimento del locale commerciale venga attribuito all’affittuario anche il godimento di un complesso di beni aziendali idonei all’esercizio dell’impresa.

In difetto, nonostante il nomen iuris attribuito dalle parti, il contratto se avesse ad oggetto essenzialmente l’uso del locale (anche se all’interno di un centro commerciale) si può configurare come una locazione commerciale con tutte le conseguenze di cui sopra.

Nel caso di specie la Corte di Cassazione ha infatti stabilito che: “…la mera collocazione del locale nel centro commerciale nulla dice quanto al tipo di contratto che lo riguarda…” (Cass. sent. n. 3888/2020).

Forse ti può interessare quest’altro articolo sulla Registrazione contratto di locazione: la guida definitiva.

Exit mobile version